Se domani l’umanità finisse di colpo per una delle tante possibili apocalissi a cui spiritosamente tiriamo la coda di tanto in tanto, rimanere a vivere in città tra bande di predoni ed enormi topastri mutati geneticamente e istericamente aggressivi non sarebbe l’idea migliore per garantirsi una speranza di vita superiore alla mezza giornata scarsa.

Manuali di storia alla mano, l’impresa più saggia per il sopravvissuto intenzionato a mantenere il più a lungo possibile questa precaria condizione sarebbe quella di avvicinarsi alle sponde di un fiume e seguirne il corso. O almeno questa è l’idea maturata negli studi di The Molasses Flood dove si è riunito un gruppo di fuoriusciti da Irrational – elegante giro di parole per raccontare la storia di quegli sviluppatori al lavoro sulla serie di Bioshock licenziati in tronco da un giorno all’altro dalla società proprietaria del franchise durante uno di quei giri di valzer che chiamano ristrutturazioni aziendali.

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A prima vista The Flame in the Flood, il loro primo titolo nato sotto la nuova etichetta, porta con sé tutti i segni di una sorta di rigetto per la precedente occupazione, perché se dopo aver programmato per anni un gioco immerso in un’ambientazione futuristico-distopica che fondava la sua narrativa su una sociologia spicciola della società moderna si decide di spazzare via dalla faccia terra ogni essere umano e tutto il progresso tecnologico da lui prodotto per lasciare la sola protagonista in compagnia di un cane e in balia dell’irruento corso del fiume e delle minacce di una natura di nuovo padrona del pianeta, beh, non serve aver letto tutto Freud per trovare un filo conduttore.

E forse potrò essere giudicato colpevole di malizia, ma The Flame in the Flood è la perfetta metafora di quel detto statunitense che suona come shit happens, traducibile con la consapevolezza che le cose possono andare male di punto in bianco a prescindere dai nostri sforzi per farle andare bene, e spesso lo fanno, senza apparente motivo – in maniera irrazionale si potrebbe dire con beffarda ironia. Già perché mentre la piccola Scout scende il corso del Fiume – senza un nome, ma incarnazione di ogni grande fiume dell’epopea umana – insieme al suo fido cagnolino Aesop – ok, oggi le metafore si sprecano – non c’è nessuna garanzia che l’esperienza maturata in anni e anni di survival game, crafting e pianificazione del percorso possano essere sufficienti a garantirle la sopravvivenza per qualche miglia in più.

L’ingiustizia della condizione umana si nasconde dietro una singola parola, procedurale, che definisce la generazione causale del percorso, delle tappe che si incontrano lungo la strada, delle risorse che saranno disponibili e delle minacce che bisognerà affrontare o aggirare per impossessarsene. Lo scopo del viaggio è quello più terra terra nella piramide dei bisogni dell’uomo, la mera sopravvivenza, legata a quattro parametri vitali di Scout – nutrizione, idratazione, temperatura corporea e riposo – che determinano semplicemente quale tra le innumerevoli potenziali cause di morte richieda l’attenzione più immediata.

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L’impossibilità di una programmazione che estenda il suo orizzonte anche solo al medio periodo impone di pensare sempre solo al presente e rimpiangere le occasioni perdute. Con quell’amo e filo da pesca usati per curare una lacerazione provocata da un attacco dei lupi si sarebbe potuto costruire una trappola con cui catturare un cinghiale e cibarsene. Fa niente se adesso con le cannule a disposizione avrei avuto abbastanza materiale per costruire un pezzo di corda, lo sparuto spazio a disposizione nell’inventario mi serviva per accumulare il necessario a curare un’infezione, il cadavere di Scout se ne sarebbe fatto ben poco di una corda.

Ed è inutile pensare a cosa sarebbe successo scegliendo di approdare di fronte a quella fattoria sull’altra sponda invece che nei pressi della chiesa povera di risorse in cui Scout e Aesop si ritrovano ora, la corrente del fiume è vigorosa e indomabile, nemmeno un motore costruito con il fortunoso ritrovamento dei rari materiali utili allo scopo avrebbe cambiato il corso degli eventi, e ricaricare il salvataggio precedente non farebbe altro che metterci di fronte a un fiume identico, ma diverso: potrebbe non esserci alcun approdo in quel punto o essercene uno identico con altre risorse.

In balia degli eventi la sola strada percorribile è quella tracciata dai flussi nel disperato tentativo di aggiungere metri e giorni alla tabella di viaggio, compiendo in ogni istante decisioni drammatiche per cui non si dispone di elementi sufficienti a valutarne le conseguenze anche nell’immediato. Non resta dunque che ridurre il processo decisionale alla determinazione dell’elemento più utile qui e ora e retrocedere il futuro da certezza ad eventualità, o arrendersi di fronte al ciclo inarrestabile generato da una scelta sbagliata, da un azzardo o una scommessa col domani immeritatamente persa.

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Il fallimento e la morte, o meglio il decadimento fisico di Scout che costringe ad osservarla mentre si muove lenta e drammatica lungo uno scenario che abbandona i colori e cede il passo alle ombre, diventa dunque un elemento di gioco al pari del crafting, non un incidente di percorso, ma un evento previsto, cercato, perfettamente integrato nell’economia dell’ecosistema di The Flame in the Flood al punto da avere un suo ruolo e un suo peso specifico. Morire diventa occasione per osservare un’infografica del proprio percorso riassunto nello spazio e nel tempo da immagini e cifre, giusto in tempo per risalire di nuova sulla zattera qualche metro più a monte e riprendere un viaggio che non può condurre a salvezza alcuna, perché non è la salvezza la meta di Scout quanto una sopravvivenza da guadagnare metro dopo metro, onda dopo onda.

A differenza di Dark Souls ed epigoni però la decisione di alzare l’asticella della difficoltà e costringere il giocatore a confrontarsi ossessivamente con la morte del proprio alter-ego non è una scelta di game design, ma una conseguenza diretta della filosofia su cui il gioco poggia le basi, intesa in questo caso come riflessione sulla condizione umana e non come omaggio a un’epoca videoludica – in cui per altro la calibrazione della difficoltà puntava a stimolare l’elargizione di monetine e non certo lo sviluppo della sincronia occhio-mano.

L’inseguimento di una sorte più clemente si ripete così in un ciclo di morte e ripartenza dall’ultimo accampamento nella speranza che il nuovo sentiero tra le sponde tracciato dal motore procedurale si più generoso in termini di risorse. Perlomeno, finché non si scopre che l’inventario di Aesop non è toccato da eventi terreni come la morte, ma mantiene al suo interno tutto ciò che vi viene depositato, un’assicurazione sulla vita di cui beneficiare nell’aldilà della prossima incarnazione.

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Una trovata che da un punto di vista puramente utilitaristico semplifica in maniera decisa la progressione di gioco, trattandosi in buona sostanza di uno scrigno magico in cui custodire le risorse più preziose quando le cose si mettono male per concedersi una partenza più favorevole nella partita seguente. Nell’ottica di chi invece ancora si illude di trovare qualche spunto di riflessione con un pad tra le mani, invece, il ventaglio di opzioni che l’inventario di Aesop spalanca arriva gelida e raggelante come una coltellata tra le scapole.

A quel punto non è più solo la stralunata colonna sonora, melodie tra rock e folk che non si fanno mai mancare un giro di fisarmonica, a riempire la stanza di malinconia, né i colori saturi del quel sud degli States indefinito e decadente lungo cui navigano le figure dinoccolate di Scout e Aesop ad evocare un senso di inquietudine vago e costante. A quel punto è la consapevolezza di essere perfettamente in grado di far morire di stenti una ragazzina digitale pur di conservare l’ultima fetta di torta di mais per garantirsi una vita migliore dopo la morte a convincermi che The Flame and the Flood mi abbia raccontato della sopravvivenza – e di riflesso della natura umana – forse più di quanto fossi pronto a scoprire.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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